giovedì 29 settembre 2011

La pelle che abito

Cosa non può fare l'amore di un pazzo...

La pelle che abito, diciottesimo film del regista spagnolo Almodòvar, sembra un racconto preso a prestito dal miglior Palahniuk invece si scopre tratto da romanzo "Mygale" (trad it.Tarantola, Einaudi) di Thierry Jonquet.

Audace, perverso, geniale, 'freak,' sono state date molte etichette a questa pellicola, ma nessuna riesce a racchiudere la visionaria struttura di un' opera che procede a ritroso per stratificazioni color carne. Il corpo sezionato della bella Vera Cruz si fa metafora estrema della creazione artistica. Lo scienziato, l'artista che s'innamora della sua opera è il tema di un Frankenstein sempre attuale in epoca di manipolazione genetica, e ancor più pericolosa: psicologica come questa. Ebbene Almodovar esplora l'ossessione inserendola in un melodramma dark con le cifre di riconoscimento che l'hanno reso celebre: travestitismo, tradimenti, legami di sangue, sindrome di Stoccolma, erotismo e abuso di potere, ecc... Ottima interpretazione di Banderas nei panni del chirurgo estetico Robert Ledgard, una recitazione che Almòdovar gli ha richiesto espressamente: "statica, silenziosa e violenta"; buona prova anche per l'attrice che impersona la sua musa feticcio, strano corpo oggetto di vendetta e insieme tentata sostituzione. Il medico cerca infatti di modellarla secondo i lineamenti della moglie morta carbonizzata in un incidente d'auto. La trasformazione è strabiliante, soprattutto per l'ignaro spettatore. Nonostante il materiale 'crudo' il film si mantiene ad alti livelli grazie ad una sobrietà di fotografia, suggestiva e citazionista. Una miscela di generi dove non manca l'ironia, anche se il noir rimane predominante, come afferma lo stesso regista:
"La piel que habito, è vero, è probabilmente il film più noir che abbia fatto fino ad oggi [...]. C'è una zona del film in cui il genere dominante è il terrore, ma un terrore autentico, senza artifici, senza sangue né spaventi [...]. E quella zona terrorizzante pesa molto sull'emozione dello spettatore. Ma non è un film cupo. C'è molta luce, non ho voluto fare ricorso a un'estetica espressionista con ombre che tagliano le pareti, eccetera".

Non a caso il film si è meritato al Festival di Cannes il premio per la miglior fotografia; grazie al lavoro di José Luis Alcaine si puà affermare che Almòdovar ha contribuito a far parlare di una rinnovata energia nel cinema europeo.

(le dichiarazioni di Almodovar sono riprese da un'intervista di Angel S. Harguindey pubblicata il 16 Settembre sul Venerdì di Repubblica)

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