mercoledì 13 settembre 2017

Abbiamo conosciuto

Abbiamo conosciuto l’alfabetizzazione, la stabilità alimentare, l’allungamento della vita media, gli SSRI, l’alcolismo, la bulimia, l’acredine dell’adolescenza, l’inter-rail, le autostrade, gli outlet, le carte di credito, le startup, i trucchi da due soldi di Kiko, la blasfemia, i meme, l’intolleranza al glutine, gli hamburger gourmet. E poi le seghe, seghissime, sempre. Allora come adesso. Nessuno può sbregare la maschera al volto delle cose, perché nessuno vuole sapere che c’è una maschera appiccicata elle cose, che basterebbe scrostarla per essere diversi, per essere vivi, forse. La cosa certa è che siamo stati programmati per estinguerci prestissimo e non lo sappiamo. La cosa certa è che abbiamo cominciato a soccombere al compimento del diciottesimo anno, ai diciannove eravamo già in metastasi, a vent’anni: sotterrati vivi. Tenere al guinzaglio la morte è l’unico vero lavoro, il che vuol dire tenere a bada l’idea che ho anch’io di morire. Il nostro secondo lavoro è cercare di disintossicarci dai disturbi alimentari: un circolo vizioso di ingrassamenti e dimagrimenti impercettibili, eppure mostruosi. Questo secondo lavoro ci tiene parecchio impegnati, e almeno, devo dire, ci distrare dalla morte. Un tanto siamo impegnati a scegliere la birra artigianale, che ci gratifica parecchio, un tanto siamo presi dall’idea di comprare i generi alimentari di prima necessità, tipo tonno e insalata e pasta e latte. D’altro canto il nostro frigo è sempre semi-vuoto, la nostra fame sempre la stessa violenza impellente, i nostri occhi hanno le carie dentro, la stessa disperazione priva di doppio fondo. Sono occhi leggermente arrossati, rigati, strabiliati; occhi accerchiati, fotografati, allungati, dopati, stanchi, stanchi, sempre più stanchi e aggiogati dal sistema binario della rete. Va tutto bene, sempre meglio che affrontare la ferocia dell’Italia schiantata e il nostro frigo semi-vuoto. Voi la vedete, ma è un vedere malato, voi dite di vedere ma il vostro è il vedere di un cieco (Giovanni 9.1-4), e io il fango che fa miracoli e toglie i peccati del mondo non ce l’ho, non ce lo metto. La mia scrittura è uno sputo che niente impasta se non l’umore di un corpo malato. La mia scrittura è tutta qui: una serie di tentativi ininterrotti d’affrancamento dal gioco del corpo malato. 

sabato 9 settembre 2017

Scrivere

Tante persone tra amici e conoscenti quando mi rivedono mi chiedono se sto scrivendo. Io con un po’ di imbarazzo dico di no, oppure sì, ma poco, per non deludere le aspettative del prossimo che ripone la sua fiducia in me in quanto persona che scrive, o almeno dovrebbe. Ok amici, lo ammetto: non scrivo. Però leggo. Leggo molto (relativamente) e osservo, e penso che queste due siano le cose più importanti, molto più importanti di scrivere per chi ama scrivere, per chi vuole provarci, o ci ha provato. Leggere e osservare sono considerate attività passive, quindi inferiori allo scrivere, eppure ne costituiscono le fondamenta. Se uno scrittore scrive più di quanto legge secondo me sta commettendo uno sbaglio, o forse si sopravvaluta credendo che produrre parole proprie sia più importante che leggere e capire cosa hanno da dire gli altri. Il punto è proprio questo: io io io io. Ma l’io non è così importante, e anzi non vale niente senza il nutrimento che viene dall’altro. Scrivere è importante, ma ancora di più lo è leggere e onorare le parole che ci hanno preceduti. Senza questa specie di devozione uno scrittore non vale niente, se si misura il valore di una persona come la capacità di mettersi in relazioni con gli altri, raccoglierne le storie, la solitudine che ogni uomo e donna custodisce, e farne tesoro; e solo in un secondo momento provare a dargli voce con la scrittura, che viene dopo, se viene; altrimenti va bene così.

Scrivere significa

"Scrivere significa: contemplare la lingua, e chi non vede e ama la sua lingua, chi non sa compitarne la tenue elegia né percepirne l'inno sommesso, non è uno scrittore".

G. Agamben, Il fuoco e il racconto, p.14.

O MIA CAPITALE!


Se dovessi fare un ritratto

Se dovessi fare un ritratto della mia generazione (sic.) non potrei prescindere dai padri e dalle madri, dalla famiglia, dal paese, da quella terra incubatrice d’incubi chiamata “la provincia italiana”, che ha allevato la sua prole nelle promesse grasse di una decade – gli anni ’90 - in cui essere bambini era tutto un pomeriggio di merendine Mulino e cartoni Italia Uno. 
Queste promesse erano spalmate generose su tutte le classi sociali, come la Nutella sul pane, queste promesse sembravano vere e occultavano la massa tumorale che cresceva ai piani alti, un processo degenerativo che forse fa parte della coscienza di ogni corpo, nel frattempo diventato adolescente. Il corpo è speciale e tremendo e richiede un’attenzione speciale e tremenda. 
Il corpo prima contenuto nell’orizzonte scemo e cattivello delle aule e dei sagrati, degli oratori e dei campetti di calcio, si è trovato gettato senza il tempo di rendersene conto nella prima decade del millennio nuovo. La profezia non si è avverata, né in un senso, né nell’altro: non siamo immortali, anche se il tempo sembra un ritorno eterno a quel nucleo infantile di malattia mentale che ci piace chiamare casa, e spesso, sempre, coincide con la casa delle origini, la casa del paese, la casa dei giochi e degli incubi; la casa anni ’90 modello Hansel e Gretel costruita sulla plastica delle sorpresine e cioccolato degli ovetti. La casa incubatrice, la casa Usher, che non smette di crollare e riformarsi sotto il nostro sguardo che nel frattempo ha divorato tutte quelle serie e libri, facendosi non specchio, ma pozzanghera dell’anima. Cerchiamo tutti ancora qualcuno/a che sappia saltarci dentro con la gioia avventata e birichina di un bambino. 
Il ritratto della mia generazione non è un ritratto, dato che è impossibile fissare in poche righe l’umano perverso e polimorfo, ma un salto colto nella sospensione per aria. Dove atterreremo? Dove? Meglio non sapere, non dare a intendere che un’alternativa non ce l’hai. Un lavoro non ce l’hai. Una casa non ce l’hai. Un futuro non ce l’hai. Quello che hai è solo un corpo, un corpo dinamo che trasforma le tue percezioni in desiderio, un motore scomponibile, con membra separate e autonome: una raccolta di ex voto in ostensione alla cosmesi. È solo attraverso la cosmetica che riesci a trasformare la paura in disciplina, l’angoscia del tempo che passa in stile, intuendo che il divenire è male e decidendo di arrestare tutto e di vivere in questo arresto che si chiama oggi. Un tempo preliminare al disastro che tiene il disastro a distanza, lo procrastina indefinitamente, e indefinitamente lo ignora. È nel corpo oggetto desiderio che si riversa il tentativo di confortare la disperazione. La disperazione è esplicita e fondata, panica. È la paura quotidiana del corpo che si consuma, che si sfrega: gli organi interni si sfregano, le ossa si sfregano, i nervi si sfregano, il corpo invecchia e invecchiare è questo sfregamento continuo, questa meccanica da preparazione di un fuoco, ma il corpo della mia generazione è una pietra focaia bagnata, sono rametti che si spezzano, è tempo che se ne va senza attrito, senza scintilla. Trovare un po’ di luce in questa vita, adesso, non è più solo una questione di paura del buio, ma è anche quello che nella maggior parte ci rovina, perché principio metafisico e infecondo: il Senso, uno strumento per distinguere le cose e provare a decifrarle. Ne resta? Dove?