sabato 9 settembre 2017

Se dovessi fare un ritratto

Se dovessi fare un ritratto della mia generazione (sic.) non potrei prescindere dai padri e dalle madri, dalla famiglia, dal paese, da quella terra incubatrice d’incubi chiamata “la provincia italiana”, che ha allevato la sua prole nelle promesse grasse di una decade – gli anni ’90 - in cui essere bambini era tutto un pomeriggio di merendine Mulino e cartoni Italia Uno. 
Queste promesse erano spalmate generose su tutte le classi sociali, come la Nutella sul pane, queste promesse sembravano vere e occultavano la massa tumorale che cresceva ai piani alti, un processo degenerativo che forse fa parte della coscienza di ogni corpo, nel frattempo diventato adolescente. Il corpo è speciale e tremendo e richiede un’attenzione speciale e tremenda. 
Il corpo prima contenuto nell’orizzonte scemo e cattivello delle aule e dei sagrati, degli oratori e dei campetti di calcio, si è trovato gettato senza il tempo di rendersene conto nella prima decade del millennio nuovo. La profezia non si è avverata, né in un senso, né nell’altro: non siamo immortali, anche se il tempo sembra un ritorno eterno a quel nucleo infantile di malattia mentale che ci piace chiamare casa, e spesso, sempre, coincide con la casa delle origini, la casa del paese, la casa dei giochi e degli incubi; la casa anni ’90 modello Hansel e Gretel costruita sulla plastica delle sorpresine e cioccolato degli ovetti. La casa incubatrice, la casa Usher, che non smette di crollare e riformarsi sotto il nostro sguardo che nel frattempo ha divorato tutte quelle serie e libri, facendosi non specchio, ma pozzanghera dell’anima. Cerchiamo tutti ancora qualcuno/a che sappia saltarci dentro con la gioia avventata e birichina di un bambino. 
Il ritratto della mia generazione non è un ritratto, dato che è impossibile fissare in poche righe l’umano perverso e polimorfo, ma un salto colto nella sospensione per aria. Dove atterreremo? Dove? Meglio non sapere, non dare a intendere che un’alternativa non ce l’hai. Un lavoro non ce l’hai. Una casa non ce l’hai. Un futuro non ce l’hai. Quello che hai è solo un corpo, un corpo dinamo che trasforma le tue percezioni in desiderio, un motore scomponibile, con membra separate e autonome: una raccolta di ex voto in ostensione alla cosmesi. È solo attraverso la cosmetica che riesci a trasformare la paura in disciplina, l’angoscia del tempo che passa in stile, intuendo che il divenire è male e decidendo di arrestare tutto e di vivere in questo arresto che si chiama oggi. Un tempo preliminare al disastro che tiene il disastro a distanza, lo procrastina indefinitamente, e indefinitamente lo ignora. È nel corpo oggetto desiderio che si riversa il tentativo di confortare la disperazione. La disperazione è esplicita e fondata, panica. È la paura quotidiana del corpo che si consuma, che si sfrega: gli organi interni si sfregano, le ossa si sfregano, i nervi si sfregano, il corpo invecchia e invecchiare è questo sfregamento continuo, questa meccanica da preparazione di un fuoco, ma il corpo della mia generazione è una pietra focaia bagnata, sono rametti che si spezzano, è tempo che se ne va senza attrito, senza scintilla. Trovare un po’ di luce in questa vita, adesso, non è più solo una questione di paura del buio, ma è anche quello che nella maggior parte ci rovina, perché principio metafisico e infecondo: il Senso, uno strumento per distinguere le cose e provare a decifrarle. Ne resta? Dove?

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